Conversare con Dominic Dale è un’esperienza unica. In questa esclusiva intervista, abbiamo ripercorso un viaggio che dura da più di trent’anni. Dalla competizione selvaggia con 900 giocatori negli anni ’90 ai momenti salienti di una carriera ricca di emozioni. Tra dress code fuori dalle righe e la passione per le stecche, “The Spaceman” ci porta alla scoperta del suo mondo.
Dominic Dale non è diverso dall’immagine che lascia percepire di sé al tavolo o in televisione. Estroverso, loquace, dalla parlantina fluente. Uno stile, anche nell’abbigliamento, sempre fuori dall’ordinario. Lo spettatore medio oggi si lamenta della mancanza di personalità nello snooker. Basterebbe parlare con “The Spaceman” per qualche minuto per cambiare idea. Mi dice subito che ho deciso di intervistarlo in uno dei momenti peggiori di forma degli ultimi anni, anche se sembra non farmelo pesare. Ha appena perso un match di qualificazione contro Chang Bingyu, giocando con una stecca prestatagli dal suo amico Stephen Maguire. “Mi sa che ho bisogno di trovarmene un’altra, altrimenti le cose non andranno bene.”
Tra qualche mese saranno passati esattamente trent’anni da quando il gallese d’adozione è entrato sul circuito professionistico, senza mai uscirne. Affascinante è capire come questo lungo viaggio è iniziato.
Dale è nato e cresciuto a Coventry, vicino la locale fabbrica della Jaguar. Quando aveva dieci anni, il padre fu licenziato, acquistò un cottage e si spostò con la famiglia in Galles. Qui un piccolo tavolo regalato dai genitori, come per tanti, è stato il punto d’inizio per la sua carriera. In televisione nei primi anni ’80 amava vedere Alex Higgins imbucare bilie da ogni posizione, giocando sempre all’attacco. Ma il suo giocatore preferito era Terry Griffiths, calmo e rilassato, a tratti lento, ma elegante. La classe del giocatore di Llanelli fu la sua ispirazione durante la sua adolescenza.
Fu proprio in quegli anni che Christopher John Dale cambiò ufficialmente il suo nome. “Questo è il tipo di cosa che un giocatore come Mark Williams non avrebbe mai dovuto sapere! (ride) Ancora oggi mi chiama Chris. Mio fratello scelse il nome per me, visto che sono nel periodo di Natale. A scuola c’era una ragazza che si chiamava Dominica e un ragazzo chiamato Dominic, il nome mi piaceva. Per un periodo dopo la scuola lavorai nello studio di un notaio, quindi renderlo effettivo fu facile.”
“Poi a diciassette anni iniziai a lavorare in una stazione di polizia, curiosamente situata a pochi passi dalla casa di Matthew Stevens. Nonostante l’offerta di un lavoro a tempo pieno, a diciannove anni vinsi il campionato gallese dilettanti e giunsi in finale al campionato del mondo di categoria in Thailandia. A quell’epoca non avevo minimamente considerato l’opzione di diventare professionista.
Pensavo che sarebbe stato bello viaggiare per giocare tornei amatoriali e allo stesso tempo avere un lavoro stabile. Fu una coincidenza ad aiutarmi a prendere la decisione. Proprio nel 1992 il circuito “si allargò”: bastava pagare una quota e si diventava automaticamente dei giocatori professionisti di snooker. Un imprenditore locale decise di sponsorizzarmi, anche se nutrivo ancora dei dubbi. Alla stazione di polizia mi dissero: “Dominic, provaci. Se in tre, quattro anni non ci sarai riuscito, riavrai il tuo posto qui.” Trent’anni dopo sono ancora tra i pro, non credo ci siano rimasti male.”
Il 1992 è ricordato da tutti gli appassionati di snooker come l’anno in cui passarono professionisti contemporaneamente Ronnie O’Sullivan, John Higgins e Mark Williams. Dominic Dale era insieme a loro e in quell’anno di cambiamento il circuito subì un cambiamento drastico.
“A quei tempi ricordo che il livello dei giocatori dilettanti era altissimo. Circa duecento amateur che giocavano spaventosamente bene a snooker erano lì insieme a me in fondo alla classifica ufficiale. Tanto facile divenne nel 1992, quanto difficile invece era prima darsi una chance per entrare sul circuito. Prima bisognava vincere il campionato dilettanti della propria nazione, mandare una domanda d’applicazione, ottenere l’approvazione di una giuria eletta dalla federazione e poi si poteva venir scelti.
Se prima venivano accettati un paio di giocatori all’anno, improvvisamente i professionisti erano diventati novecento. Si potevano notare immediatamente la differenza tra giocatori dotati di gran talento e altri che non erano per niente all’altezza. Ricordo ancora quando nel mio primo anno dovetti passare un’estate intera a Blackpool a giocare turno di qualificazione dopo turno di qualificazione. Bisognava vincere quattro partite per poter accedere al primo turno di un torneo e in quei tre mesi si giocavano le qualificazioni di ben dieci competizioni diverse.
Senza dubbi fu formativa come esperienza perché passai tanto tempo lontano da casa, avendo l’obbligo di concentrarmi sullo snooker. Il mio sponsor mi dava 500 sterline al mese e dovetti imparare a gestire bene le spese. Non era affatto facile per un ragazzo di vent’anni. Ricordo l’atmosfera che si creava in albergo, quando alcuni giocatori che si interessavano poco allo snooker si divertivano ad organizzare nottate in cui l’alcool e le carte erano padroni assoluti del tempo. Chi invece aveva una mentalità diversa ed era lì per inseguire il sogno di diventare un giocatore affermato, stava ben lontano dal poker e dalla birra.
Guardavamo con ammirazione i giocatori che arrivavano a giocare un solo turno di qualificazione, il quinto. Erano i top-64 e anche dal solo modo di vestire tutti pensavamo: “Questi sono professionisti.”
In una carriera in cui è stato numero 19 al mondo e due volte nei quarti di finale al campionato del mondo, Dale ancora oggi si porta dietro un record abbastanza sconveniente, a cui però non dà ancora oggi troppa importanza. Sembra essere ben conscio del motivo per cui in tanti lo ricordano soltanto per quella statistica. Il gallese è infatti l’unico giocatore ad aver conquistato più di un titolo full ranking e a non essere mai entrato nei top-16.
In tanti hanno fatto a Dominic questa domanda negli anni, e seppur non menzionando direttamente l’argomento, ne spiega il motivo: “Non sono mai stato abbastanza costante per poterci riuscire. Spesso in un torneo o in un breve arco di tempo sono stato capace di giocare ad un livello altissimo. Clive Everton ha affermato che potrei battere chiunque nella mia giornata. Ma non sono mai riuscito a trovare la giusta continuità.”
Più interessante è invece capire quali sono state le sensazioni vissute nei due titoli conquistati, l’uno a distanza di dieci anni esatti dall’altro. Il Grand Prix nel 1997 e lo Shanghai Masters nel 2007. Un decennio in cui lo snooker ha subito un processo evolutivo rimarcabile.
“Quando vinsi il mio primo titolo full ranking si può dire che eravamo ancora nella “Golden Era” dello snooker. Stephen Hendry era il dominatore indiscusso delle classifiche e John Higgins, il mio avversario in finale e quasi coetaneo, era il numero due al mondo. John, passato professionista insieme a me, in soli cinque anni era già ai vertici.
Finii avanti la prima sessione 5-3 e ricordo ancora come ieri quando ritornai in sala in serata e mi ritrovai a pochi centimetri da me, in giacca e cravattino, una sfilza di campioni: Terry Griffiths, Rex Williams e John Pullman. Tutti mi guardavano e sentii una pressione incredibile. All’epoca ero numero 54 al mondo, non avevo mai provato una cosa del genere. Fu il mio vero e proprio battesimo di fuoco, mi sembrava tutto assolutamente nuovo, avevo venticinque anni.
Non avevo nulla da perdere. Volevo soltanto divertirmi e giocare a snooker. La pressione era tutta su John, lui era numero due al mondo e doveva battermi. Il mio unico obiettivo era quello di non finire il match con un punteggio imbarazzante. “Tutto ma non un 9-0, 9-1 “, era quello che mi ripetevo. Vincere fu bellissimo.
Quando dieci anni dopo trionfai allo Shanghai Masters, lo snooker era completamente diverso. Quando vinsi il Grand Prix le sponsorizzazioni del tabacco erano ancora nel loro pieno, mentre il 2006 fu l’ultimo anno in cui la Embassy fu autorizzata a sponsorizzare il campionato del mondo. Il 2007 fu esattamente il primo anno dopo il divieto e i soldi in circolazione erano drasticamente calati.
Non avevo mai giocato in Cina e se ci ripenso nessuno avrebbe mai immaginato all’epoca che avremo avuto dei grandi giocatori di snooker cinesi sul circuito. Le condizioni erano completamente diverse. A Shanghai giocavamo in una struttura enorme ma dispersiva. Credo che in totale ci fossero 2000 persone a vedere quella finale, che sembravano ancora meno visto che probabilmente lo stadio ne conteneva 12000. Il 2007 fu l’inizio di una nuova epoca e capimmo che la Cina avrebbe avuto un peso determinante sulle sorti del circuito.
Sconfissi Ryan Day in finale, ero sotto 2-6 e finii per vincere otto frame consecutivi. Io e Ryan eravamo compagni d’allenamento e il giorno prima della finale ci sfidammo sul tavolo d’allenamento. Anche in quell’occasione, lui era in vantaggio 6-3 e io alla fine vinsi 9-3. Credo fosse destino che ritornassi a vincere un titolo…”
Dominic sa essere lucido e serio nelle sue analisi, ma allo stesso tempo si percepisce che sa prendere la vita alla leggera. È assolutamente parte della sua indole. Lo abbiamo visto negli anni cantare più di una volta “My Way” di Frank Sinatra in conferenze stampa e premiazioni, vestirsi in maniera eccentrica, insegnare trucchi su come tenere la stecca in equilibrio sul palmo di un dito. Ma qual è la cosa più strana che gli è capitata sul circuito?
“Nel 2002 ero appena uscito da un ospedale, andai a trovare un mio amico che stava molto male. Non so quanto le cose possano essere collegate, forse le sensazioni negative che c’erano nell’ambiente mi condizionarono, ma tornai a casa e stavo malissimo. Il medico mi disse che avevo una forte intossicazione alimentare. Spiegai che dopo qualche giorno avrei dovuto giocare al Crucible Theatre di Sheffield per il primo turno del mondiale, contro Jimmy White. Secondo il suo parere, avrei potuto provare a scendere in sala, ma di sicuro non sarei stato al meglio.
Senza essermi allenato neanche un’ora, quel giorno Jimmy iniziò a distruggermi. A metà sessione ero sotto 6-2. Me ne stavo seduto sulla mia sedia, mi sentivo malissimo, e all’improvviso entra in sala un invasato con una maschera in faccia, completamente nudo… Non so quanti altri ce ne siano stati nella storia del campionato del mondo… Quinten Hann, che giocava sull’altro tavolo, mi diede un’occhiata e scoppiò a ridere. Forse aveva visto la disperazione più pura nel mio sguardo. Poche esperienze sono state surreali come quella.”
L’argomento dress code, ultimamente parecchio in voga, è per forza di cose un argomento di discussione. Seppur oggi non lo si vede più ossigenarsi i capelli, indossare camicie rosa o scarpe zebrate, Dale resta comunque abbastanza radicato alla tradizione. Apparire fuori dalle righe, ma restando nel solco scavato da anni di eleganza nel gioco sembra essere il suo motto. Il gallese è a favore di un’apertura in determinati eventi e lancia qualche frecciatina a chi osa senza badare troppo al risultato finale…
“Ci sono tanti dettagli nel dress code che passano inosservati al grande pubblico. Ancora oggi curo molto anche le minuzie nel mio modo di apparire. Mi ritengo un tradizionalista da questo punto di vista, ma sono consapevole che bisogna restare al passo con i tempi e la federazione ha provato ad inserire nel corso degli anni eventi in cui ci si può vestire in maniera più rilassata. Sono il primo che apprezza queste iniziative, anche se ci è capitato di lamentarci perché taglie o materiale dell’abbigliamento fornitoci non erano ideali…
So che Judd Trump si impegna molto per far cambiare la situazione e “svecchiare” l’ambiente, e tanti, soprattutto i cinesi, tendono ad imitarlo. Nei tornei più importanti credo si debba mantenere un aspetto formale, si può osare ma basta non vedere giocatori che indossano fantasmini e scarpe classiche…”
Se il lato eccentrico di Dale riserva (senza troppe sorprese) storie interessanti, se lo si vuole sentir davvero parlare con passione, basta introdurre l’argomento stecche. Fino a qualche anno fa possedeva una collezione di tutto rispetto, con alcuni pezzi risalenti anche al XVIII secolo. L’argomento lo stimola a rivelare anche qualche curiosità che all’appassionato medio può sfuggire.
“Quando sono diventato professionista era ancora la norma vedere tanti giocatori utilizzare stecche costruite negli anni ’30! Il legno di queste stecche era poco elastico, visto il processo di ossidazione subito nel corso del tempo. Se impugnavi una di quelle stecche dal calcio e la colpivi con il palmo della mano, il puntale iniziava ad oscillare! Ovviamente questa caratteristica non è ideale per un giocatore di snooker, soprattutto quando si vuole giocare colpi che richiedono una certa potenza.
Questo rende ancora più incredibili alcuni risultati ottenuti. Steve Davis usava una stecca vecchissima e più recentemente anche Shaun Murphy, quando vinse il campionato del mondo nel 2005, ne utilizzava una che aveva più di ottant’anni! Anche la stecca di Hendry era tremendamente flessibile. Ricordo di averci provato a fare qualche tiro ed ebbi subito la sensazione che il legno fosse davvero debole. Immagino che solo lui fosse in grado di riuscire a giocarci.
Dal punto di vista dell’innovazione, nello snooker siamo indietro rispetto a tanti altri sport. Soltanto da poco stiamo sperimentando le ghiere in titanio, quando nel pool in America sono avanti già anni luce. Se pensiamo ad un paragone, nel passato le mazze da golf e le racchette da tennis erano fatte in legno. Ma con il tempo la sperimentazione ha portato all’utilizzo di materiali sempre più innovativi. Noi, ironicamente, siamo fermi al passato. Ma a differenza di questi sport, se ci capita un problema con la nostra stecca, non possiamo semplicemente chiedere al produttore un’altra uguale, perché ciò in pratica è impossibile.”
Grazie alla sua vasta esperienza, ciò che non manca a Dale è una conoscenza approfondita delle dinamiche, non soltanto puramente tecniche ma anche generali, dello snooker. Visto il suo ruolo come commentatore ed esperto per Eurosport, è legittimo chiedergli la sua opinione su cosa accadrà al circuito professionistico nel breve futuro, visto un cambio di generazione che appare abbastanza imminente.
“Tra qualche tempo i migliori saranno giocatori cinesi. Lo snooker può affidarsi a O’Sullivan, Higgins e Williams per qualche altro anno, ma poi anche per loro sarà difficile competere con i più giovani. Se devo essere onesto, credo che in Gran Bretagna le nuove generazioni non siano al livello di quelle precedenti. Nei prossimi tre-quattro anni i cinesi potrebbero già prendere il sopravvento.
Ci sono tanti giocatori tecnicamente già eccelsi. Un altro punto a loro vantaggio è che grazie alla tecnologia si possono imparare tantissime cose. Anche semplicemente guardando video su YouTube si possono acquisire conoscenze che poi si possono rivelare fondamentali, e questo già da ragazzini. Quando io ho iniziato ciò era impossibile.
La differenza per i giocatori cinesi, rispetto al passato, è che adesso hanno la possibilità di affidarsi a svariate accademie. Per loro l’impatto con la Gran Bretagna può essere davvero difficile da fronteggiare e spesso ciò può condizionarli. Ma oggi sono seguiti più attentamente e le barriere linguistiche e culturali per loro sono più semplici da abbattere grazie ad un adeguato supporto. Questo è un aspetto da considerare che probabilmente li aiuterà ad imporsi sul circuito.”
Dale ci tiene a sottolineare che la tecnica che posseggono la maggior parte dei giocatori asiatici è sopraffina. Lo fa spiegando un difetto che si porta dietro da quand’è ragazzino, per cui il suo gomito tende ad andare eccessivamente avanti dopo la steccata. Ha lavorato per anni su quest’aspetto, ma non è mai riuscito a cambiarlo. “Ho lavorato per anni sul mio gioco, ma se volessi, potrei ritornare ad avere la steccata che avevo quando ho cominciato e dimenticare tutti gli accorgimenti presi nel tempo. Semplicemente è un qualcosa che ti porti dietro per sempre.”
Se l’aspetto puramente tecnico è molto interessante da analizzare, quello mentale è sempre più d’attualità nel mondo dello sport. Lo snooker è lo sport più bello al mondo quando si vince, il più brutto quando si perde. E se in tanti condividono questa opinione, un motivo ci sarà.
“Ho sempre ritenuto l’aspetto mentale fondamentale. Basta semplicemente analizzare la routine che siamo tenuti a fare ogni volta che siamo al tavolo. Ci si alza dalla sedia, si sceglie il colpo che si vuole giocare, si valutano tutte le altre opzioni prima di decidere. Trovare la giusta concentrazione è essenziale. Tutti noi professionisti, quando decidiamo che colpo effettuare, ci concentriamo esclusivamente su quello.
Devi essere bravo ad ignorare tutto il resto. Ma è qui che entra in gioco la pressione. Ci si ritrova un omino sulla spalla che dice: “Perché lo stai facendo? Non ci pensare neanche!”. A volte fai un soliloquio con te stesso. Ti ripeti: “Colpisci bene quella bilia, non muovere la testa, resta concentrato.”
Essenziale è rimuovere ogni accenno di negatività. Non bisogna ripetersi: “Non muovere la testa” ma “Tieni la testa ferma.” A volte c’è poco da fare, la pressione può condizionare chiunque. Tutti abbiamo sbagliato colpi, perso frame e gettato al vento match. Però bisogna ricordarsi che anche quando si è terribilmente sotto pressione e non ci colpisce bene una bilia, quest’ultima può finire in buca. E allora le cose cambiano.
Quando a volte la pressione può paralizzarci bisogna pensare che l’avversario probabilmente sta subendo lo stesso o addirittura peggio. Bisogna realizzare ciò per diventare consapevoli del fatto che ce la si può fare. A volte basta una motivazione-extra per imparare a convivere con la pressione. Scommettere cinque sterline o il pranzo con il proprio compagno d’allenamento può sembrare una sciocchezza, ma non lo è. Abituarsi a situazioni di stress mentale è molto importante. Anche quando ci si allena da soli, è necessario imparare a replicare la pressione che si vive nel match. Bisogna visualizzare la ripulitura o il break e pensare: “Se riesco a farlo, ho vinto la partita.”
Ho provato insieme a Dominic a ripercorrere e vedere le varie sfaccettature di questo suo lungo viaggio, ancora non destinato a fermarsi. La mia domanda conclusiva è stata talmente banale che è inutile riportarla. La risposta che ho ricevuto, però, descrive alla perfezione il motivo per cui, per tanti, lo snooker è molto più di ventidue bilie colorate e un panno verde.
“Il tempo passa per tutti, bisogna accettarlo. Un vantaggio che bisogna sfruttare è il fattore “saggezza”. Quando sei giovane, ti ritrovi una imbucata difficile e non ci pensi neanche due volte a tentarla perché non pensi alle conseguenze. Quando l’età avanza, il tuo primo pensiero davanti a quella stessa imbucata diventa: “Cosa succederà se sbaglio?”. Diventa difficile avere quella stessa confidenza nei propri mezzi e spesso ci si preoccupa anche più di quello che uno dovrebbe fare.
Tanti fattori entrano in gioco, ma per quanto mi riguarda, mi do sempre lo stesso consiglio: “Non dimenticare la bellezza dello snooker.” Se il gioco fosse facile, sarebbe noioso. Il mio obiettivo è quello di godermi le sfide che decido consapevolmente di affrontare. E anche quando esco sconfitto, bisogna essere abbastanza lucidi da analizzare la situazione. Soltanto così il giorno dopo posso ritornare ad allenarmi ed essere felice quando spendo il mio tempo al tavolo.”