Non era fra i favoriti del torneo ed ha continuato a non esserlo fino all’epilogo, disputato contro Mark Allen. Dopo una semifinale vinta per il rotto della cuffia ai danni di Robbie Williams, Ryan Day ha brillato il giorno seguente per ottenere una vittoria che vale una carriera. Se quella di sabato si era rivelata una partita da dimenticare, domenica è stato invece il giorno giusto, quello da ricordare per tutta la vita.
“Oggi ho giocato davvero male, ben al di sotto delle mie possibilità. Penso che in finale non potrò fare peggio di così e che dopo aver visto la partita di stasera chiunque si aspetterà che sia Mark a vincere il torneo. Domani però è un altro giorno”. Queste erano le parole che un Ryan Day quasi rassegnato affidava ai microfoni della stampa sabato notte, al termine della semifinale vinta 6-5 contro Robbie Williams, un match durato quasi quattro ore e condito da errori piuttosto grossolani e scelte tattiche al tavolo alquanto discutibili.
Persino i commentatori d’oltremanica, con un pizzico di arguzia, avevano più volte fatto notare durante la partita come il tasso qualitativo di quest’ultima non fosse stato quello atteso per una semifinale di un torneo come il British Open. Il tutto, ovviamente, rapportato a quanto poche ore prima – e per tutto il resto della settimana – aveva fatto vedere l’altro futuro finalista, Mark Allen: il nordirlandese si era infatti imposto in successione contro calibri quali Judd Trump (4-3) e Mark Selby (5-3), sfoderando un gioco scintillante e impeccabilmente privo di sbavature, prima di guadagnarsi la finale superando agevolmente Noppon Saengkham 6-1.
“Another day”: Ryan Day non avrebbe potuto usare un’espressione più felice per lasciare che una fievole speranza potesse illuminare il tavolo principale della Marshall Arena per tutta la durata del match di domenica. Non è solo un altro giorno quello che segue la surreale semifinale di sabato, ma è anche un altro Day quello che si presenta a contendere il titolo al favorito di giornata, Mark Allen.
Lo si capisce subito quando The Pistol non riesce a fare il vuoto nel punteggio, anzi, si ritrova un Ryan Day grintoso e concentrato a rispondergli colpo su colpo fino alla fine della sessione pomeridiana, chiusa in parità. L’equilibrio si spezza così sul 7-7, quando a sorpresa è il gallese a mostrarsi il più freddo e risoluto nei momenti cruciali: l’epilogo della vicenda è ormai noto e nella bacheca di Ryan Day si aggiunge un ulteriore titolo ranking accanto ai tre già conquistati in precedenza (Riga Masters 2017, Gibraltar Open 2018, Snooker Shootout 2021).
È bene fare una precisazione: Ryan Day non è un campione ma non è neppure la meteora cui una congiunzione astrale favorevole ha permesso la vittoria del British Open. Se non bastano i titoli sopracitati, svariate altre statistiche parlano piuttosto chiaro in favore del quarantaduenne nativo di Pontycymer, piccolo villaggio di minatori situato a metà strada fra Cardiff e Swansea: passato professionista a diciannove anni, già dopo poche stagioni aveva rischiato il colpo grosso andando ad una biglia (rosa, per l’esattezza) dall’eliminare John Higgins al primo round del Campionato del Mondo 2004. In quell’occasione gli dèi dello snooker avevano riportato la situazione sui consueti binari, permettendo al veterano scozzese di spuntarla per il rotto della cuffia: tuttavia, le abilità al tavolo del giovanissimo Ryan Day non erano passate inosservate, tanto che lo stesso Higgins lo aveva battezzato come una sicura promessa negli anni a venire.
Eppure Dynamite (questo il soprannome con cui nel circuito si fa riferimento al gallese) ci avrebbe messo ancora almeno altre quattro stagioni prima di assestarsi stabilmente nei piani alti della classifica, altri dodici mesi per raggiungere il proprio best ranking (numero sei al mondo nel 2009) e addirittura otto ulteriori annate per conquistare il suo primo titolo valevole per il ranking. Un’ascesa lenta ma costante, quella di Ryan Day, condita da un temperamento raramente sopra le righe e da una personalità genuina e pura, esternata con candida dolcezza durante l’intervista di premiazione di domenica sera: “ieri è stato uno dei tanti match da dimenticare, oggi invece è stato quello da ricordare per tutta la vita”, ha dichiarato con gli occhi lucidi dopo essersi complimentato con il suo avversario di giornata, Mark Allen.
Guardando alle statistiche di questo giocatore, una domanda sorge spontanea: perché Ryan Day non ha vinto ancora di più? La curiosità è legittima, se si pensa che il gallese figura tanto nella top-20 di tutti i tempi per incontri vinti in carriera quanto nella top-15 dei migliori centurioni di sempre, avendo messo a referto ben 707 vittorie su 1209 partite disputate, impreziosite da 418 centoni. Secondo miglior gallese di sempre dietro all’immortale Mark Williams, Day ha sempre ben figurato in gran parte delle sue apparizioni nei principali tornei del calendario professionistico, ritrovandosi però soltanto raramente ad eccellere.
Solido ed efficace nel gioco d’attacco, attento in quello difensivo, Dynamite ha sempre fatto della propria abilità nel mettere a segno break importanti il proprio cavallo di battaglia, mostrandosi di rado propenso a cercare la giocata d’effetto o il colpo da prestigiatore. Queste caratteristiche lo hanno reso una presenza abituale (e un pericolo costante) nei primi turni delle competizioni, meno nelle fasi finali: lo score di appena nove finali ranking (più altre cinque semifinali) in quasi ventitré anni di carriera ne sono un’ulteriore conferma.
Per un giocatore la cui arma è sempre stata la costanza di rendimento, le implicazioni di una vittoria come quella al British Open diventano parecchie e di peso non indifferente. Ryan Day si è infatti assicurato non soltanto un assegno da centomila sterline, il single prize più elevato ottenuto in carriera, ma anche la partecipazione, tra gli altri, al Champion of Champions e l’eventualità non così campata in aria di rientrare fra le teste di serie per il Crucible. Dulcis in fundo, il balzo in classifica del gallese è stato ugualmente notevole: dalla ventisettesima alla sedicesima posizione, per un ritorno nella top16 che mancava ormai da dodici anni, se si eccettua una brevissima comparsata effettuata nel 2017.
In svariati casi la vittoria di un torneo si è rivelata per molti un trampolino di lancio, un’occasione di rivalsa, una nuova iniezione di fiducia: raramente, però, il cambiamento si è concretizzato persino in lieve anticipo e con la sorprendente rapidità con cui ha travolto Ryan Day nella notte fra sabato e domenica. Mai come in questo caso, bisognava solamente attendere “il giorno giusto”.