Torniamo indietro di trent’anni e trasferiamoci in Asia Centrale, a Bishkek. Un turbinio di ricordi si mescola con i pensieri del protagonista. Meta: la sala da biliardo. Scopriamo perché un tiro di sponda può diventare metafora della vita stessa.

L’acqua e il fango si impastano sotto le mie suole. Un caramello disgustoso mi inzacchera le scarpe. Una sorsata di cognac mi schiarisce le idee: non posso fermarmi, so dove andare.

Camminare per le strade di questa città è come finire risucchiati in un vortice. Chissà perché tanti la chiamano ancora Frunze. Michail Vasilevič, a cosa stai pensando adesso? La tua è una storia di una luna che non fu spenta. Forse per questo il tuo cognome così esotico da queste parti si sente ancora nominare. Sui pennoni sventolano bandiere rosse adornate da soli con quaranta raggi. Intorno a me, però, vedo soltanto polvere, cemento e disillusione. E sento ancora dire cose del tipo: “L’elettrificazione di tutto il paese è stata una chimera” oppure “Ai miei tempi i cammelli trainavano i filobus e avrei puntato la lama alla gola di chiunque per un pugno di zucchero.” Gli anni sono passati, ma sono sempre più convinto della ciclicità del tempo.

1995: le persone qui non sembrano ancora rendersene conto. Io sì, lo dicono le mie Nike sporche da 1000 som e il mio senso di disagio. Passo dopo passo l’asfalto inesorabilmente lascia il posto al selciato…

Pietrisco e erbacce mi riportano alla mia infanzia. Crescere negli appartamenti in comune non è stato facile per nessuno. Il mio primo vagito lo associo a delle tende a fiori fuori moda. Sono quelle che mia madre non ha ancora deciso di cambiare. Quando avevo sei anni mi disse: “Prima di comprare un’anguria, analizzala con estrema attenzione. Forma, colore e consistenza ti diranno se vale la pena comprarla.” Lo considero un consiglio valido seppur soltanto sporadicamente applicabile alle circostanze della vita. Quando penso a mio padre, invece, si materializzano davanti ai miei occhi colonnine di cenere traballanti, carte da gioco luride e brandy alla ciliegia di contrabbando. Non si era mai iscritto al partito, però si inchinava tutte le mattine davanti alle statue di Marx e Engels abbracciati. Mi ripeteva ogni giorno: “Bisogna avere rispetto per chi ha provato senza successo a cambiare il mondo”.

Gli anni della scuola, l’università, il lavoro. Una successione di obblighi e doveri. Il futuro come sinonimo di stabilità. Tutto era già scritto. I miei genitori, gli insegnanti, gli amici e anche gli sconosciuti si fidavano di me. “Sei un bravo ragazzo, la fortuna ti sorriderà. Continua a seguire il tuo percorso.”

 Ovviamente la cosa più logica da fare è stata fallire e deludere tutti. Adesso godo soltanto della tortuosità del presente. Io lo costruisco e io lo distruggo. Meditare in mezzo al bailamme, stravolgere tutto ciò che è contemplativo. Solo un’anima piena di disperazione può raggiungere la serenità. E adesso è meglio attraversare la strada…

C’è un muro brecciato, lo conosco bene. Calcio un sasso, l’alcool ormai evapora dalle mie vene. Da qualche parte, tra le rovine, avevo scritto con un pennarello una frase: “Questa è la Bisettrice del Cuore”. Ero davvero così stupido da voler dividere me stesso con Sonja? Eppure qualche tempo fa mi sono reso conto che era di lei che mi ricordavo per sorridere.

Un turbinio di pensieri mi sconvolge, fruga nel mio subconscio. Un paio di occhi azzurri, dita affusolate, un cardigan blu. Poi una matita nei capelli, una sigaretta sull’orecchio, la facoltà di architettura. Era la prima volta che la vedevo.

Le immagini sono vivide, sembra quasi che possa toccarle. Mi brillano davanti dei coltelli d’argento: i nostri momenti più belli. Una notte al parco abbracciati sull’erba umida, intrecci di labbra, bottiglie rovesciate in un buco che chiamavamo “casa”.

Istanti delicati dalla parvenza di cristallo lasciano il posto a schegge appuntite: una palma sintetica, uno schiaffo, le sue lacrime calde sulle mie dita. Sento risuonare le parole: “Sono stata davvero così stupida da offrirti metà del mio cuore?”. Io avevo creduto in quella retta che invece di dividere, univa. Mi sbagliavo. D’altronde potevo mai fidarmi di una che leggeva “La poetica dello spazio” perché “mi culla e rinvigorisce la mia anima”? In quel momento sentii un po’ la mancanza di quel corpo snello, di quei seni sodi…

Una citazione che avevo letto su un giornale ha l’effetto di una benefica raffica di vento: “il fascino di un corpo di donna che infiamma i sensi è come l’odore della cucina – eccitante quando si ha fame, ripugnante quando si è sazi.”

Passi pesanti, mente offuscata: c’è un solo modo per far sì che ritorni in me.  Mi mancano soltanto pochi gradini. Adesso andrà tutto bene, sono arrivato alla sala biliardo.

In tanti non riusciranno a capacitarsi del motivo per cui considero questo posto il mio Paradiso. Due tavoli consunti dal panno sbiadito e scorticato. Un pavimento appiccicoso, gesso sedimentato ovunque. Il fumo divora l’aria, i soldi passano di mano con estrema facilità. Il suono secco delle bilie scandisce il tempo. Dagli occhi dei giocatori però si può intravedere una dimensione parallela, un mondo bello e feroce. Io l’ho scoperto la prima volta che ho impugnato una stecca.

Ashot Potikyan è la persona a cui devo la mia Salvezza. Un uomo dallo sguardo severo e dalle movenze lente dotato di un talento fuori dal comune: è stato lui a introdurmi alla bellezza del gioco della piramide russa. Un armeno burbero e incline alle sfuriate aveva dato un senso al mio vagabondaggio.

Il suo insegnamento più prezioso? “Bisogna imparare ad amare le sponde. Non devi mai considerarle un ostacolo. Senza capirne il valore intrinseco, non ha senso giocare.” La gente crede di avere bisogno di simili appigli nel grigiore della quotidianità. Una o più sponde per alleggerire le proprie sofferenze fisiche e spirituali. Le uniche di cui ho bisogno io sono quelle del biliardo.

Potikyan mi aveva illuminato e poco dopo se ne era andato via. Aveva letto che Steve Davis, il famoso giocatore di snooker, aveva già guadagnato un milione di sterline. “Io invece me ne sto ancora qui a contare gli spicci”. Ventidue bilie colorate, gilet e papillon, sale sfarzose a Londra, Dubai e Bangkok. E soprattutto soldi, tanti quanti non ne aveva mai visti. Parōn Ashot mise le sue speranze in un’esile valigia e scomparve.

Soltanto adesso mi sento meglio. Tiro fuori dalla custodia la mia stecca e mi preparo a trovare la mia pace interiore. Nurlan ha due incisivi d’oro, una posizione al tavolo scomposta ma un braccio delicato. Mi sento già meglio, tutto ha di nuovo un senso. Le bilie finiscono in buca, Aleksej al tavolo accanto bestemmia, il caos interiore si placa.

Sento che però qualcosa sta accadendo. Cosa sto sbagliando? Non devo dare peso a queste sensazioni. Diamine, cosa c’è che non va? L’ultima bilia non è impossibile, la mando giù e tutto è finito. Ho bisogno di trovare la giusta traiettoria, toccare la sponda e far scivolare quella lucente sfera nella gola della buca. La mia steccata è morbida, il punto palla corretto, il tocco calibrato. Sfioro la sponda, non posso fallire: ho fiducia nelle mie convinzioni. E invece?

Credevo di aver imparato a trovare un equilibrio nella mia esistenza soltanto davanti a questo tavolo. Mai e poi mai avevo considerato i ganascini. Resto impietrito, forse è passato un minuto, forse un’ora. Ho davanti un palmo calloso, sento una voce: “Paga”.

Per quale ragione prima di arrivare in sala avevo ripercorso le tappe salienti della mia venuta al mondo? Tutte le mie certezze sono svanite e non me ne riesco a capacitare.

Un tiro di sponda fallito. Bastava questo? Mi misi il cappotto, accesi una sigaretta e lasciai risuonare pesantemente la porta alle mie spalle. Non era vero più niente.

Bishkek, 27 ottobre 1995

Post Scriptum
Mi hanno raccontato che Ashot Potikyan non era mai stato in Thailandia né tantomeno si era avvicinato al Tamigi. I suoi tentativi finirono per perdersi in uno squallido stanzone che qualcuno aveva osato chiamare “castello”.

Il mio mentore aveva provato a emergere tra una miriade di giovani talenti e vecchie glorie nelle forche caudine del Norbreck Castle di Blackpool. Mi dissero che una volta imbucò tutte le bilie, convinto di aver vinto una partita. Al tavolo però non c’erano abbastanza punti. Ashot non aveva fatto bene i conti. Destino crudele o emblematica constatazione del fallimento? Alla fine del match lo videro piangere per ore, seduto da solo su una sedia di plastica. Neanche il bere poté alleviare il suo dolore.

La storia di Ashot Potikyan (in russo)

Sull'autore

Marco Staiano

Sogni, speranze e illusioni celati in ventidue bilie colorate.

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